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Intervista a Gabriele Vacis
Qual è l’idea di partenza dello spettacolo e come ha lavorato?
Lavorando con un gruppo di giovani donne che hanno l’età di mia figlia, l’idea era quella di cercare di capire quale fosse il loro rapporto con il padre. Una ragazza è bulgara, una macedone, una polacca mentre tre sono italiane e ognuna di loro ha il proprio passato e una storia diversa. Le ragazze dell’est
sono nate comuniste e l’dea che loro hanno del padre è completamente diversa da quella delle ragazze italiane. I padri italiani della mia età, sono cresciuti dopo la guerra, protetti e al sicuro proiettando questa sicurezza sui propri figli. I ragazzi nati dopo gli anni di piombo, dopo gli anni 70 che è stato l’ultimo periodo di violenza sociale e collettiva, non hanno mai conosciuto le tensioni degli scontri sociali; hanno avuto un’infanzia tranquilla e questo ha distillato in loro un’idea di tutto dovuto secondo cui, in un mondo in cui si ha ogni cosa, lo sforzo, la fatica e l’impegno non sono necessari a realizzare i propri desideri.
Per esempio, i giovani italiani ma anche quelli europei, francesi e tedeschi non hanno bisogno di essere coraggiosi mentre queste ragazze dell’est hanno vissuto la loro infanzia in un regime assurdo e paradossale e hanno dovuto trovare il coraggio di affrontare una grossa trasformazione sociale.
In scena tutto questo si traduce con un’energia e una potenza incredibili.
Un cast tutto al femminile, perché questa scelta?
Mi interessava il rapporto delle figlie con il padre. I figli maschi hanno un certo tipo di rapporto con la tradizione. Perché in fondo di questo si tratta, di quanto contano il passato e la storia: Io sono la mia storia come dice il personaggio di un film di Wim Venders. E ancora, il rapporto dei maschi con la patria è completamente diverso da quello delle loro sorelle. Volevo concentrare la mia attenzione sulle donne, sul loro sguardo; lavorare con loro è stato molto interessante.
Come ha lavorato con queste 6 attrici?
Con le sei ragazze ho fatto lunghe interviste che ho ripreso in video. Più che interviste sono sedute psicanalitiche. Mi sono fatto raccontare le loro storie e il loro rapporto con il padre, ho chiesto quando si fossero sentite veramente unite e quando veramente felici insieme a lui.
Ho indagato le loro paure e le loro difese e ho cercato di capire se la figura paterna avesse a che fare con l’idea di sicurezza. Alle sei ragazze ho chiesto di raccontare storie, non ho mai chiesto opinioni. Sono venute fuori testimonianze diverse: se una ha vissuto sei, sette anni sotto il comunismo, ha paure e desideri diversi da una che discende da Alessandro il Macedone.
Credo che le immagini valgano quanto le parole e che le danze valgano quanto la musica così ho cercato un equilibrio tra immagini, danza, musica e parole, questo è stato poi il lavoro che abbiamo fatto, un lavoro che si può fare solo se in scena ci si guarda e ci si ascolta.
Alla fine abbiamo distillato tutto questo e il risultato è stato una serie di short stories, brevi racconti che dipingono un grande affresco, un quadro di relazioni tra le persone.
La parola padre, perché questo titolo?
Lo spettacolo si chiama La parola padre perché la parola è un elemento fonfamentale. Immaginate un’attrice bulgara, una polacca e una macedone che parlano lingue diverse dalle tre attrici italiane. In comune solo un inglese internazionale, il globish, una lingua che ha così poche possibilità di approfondire gli argomenti. A queste ragazze ho chiesto di parlare dei loro padri e per loro è stato molto importante farlo. La parola Padre ha la stessa radice semantica della parola Patria.